Page 75 - Ettore Dezza, Lezioni di storia del processo penale, Pavia, Pavia University Press, 2013
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Capitolo 7 – Prassi e tradizione dottrinale in Italia dal XVI al XVIII secolo

colpite da un comportamento delittuoso che spesso scelgono di occultarsi e di occultare
il reato subito, «aborrendo che si metta in carta, e che se ne faccia il processo». E se
le stesse parti lese sono le prime a volere evitare l’accusa, appare scontata la conclu-
sione che il cardinale trae dalle sue osservazioni: in una società siffatta, «quest’uso di
procedere in ogni caso per inquisizione, e ad istanza dei ministri fiscali, resta preci-
samente necessario».
Assai concreto nelle sue prese di posizione e certamente originale nell’impostazione
del problema, De Luca non ha remore nel giudicare in gran parte superflua e spesso
fuorviante la tradizionale dottrina processualpenalistica di diritto comune. I criminalisti,
continuando a ruminare le «medesime semplicità», vanno alla ricerca di regole comuni
e di principi generali che credono di poter individuare nel Corpus Iuris, nei «primi in-
terpreti», nei «dottori più antichi», ma non si accorgono che le leggi romane, in tema di
processo penale, «si devono avere come se non fossero nel mondo», e che le questioni
sulle quali disputano sono per lo più ideali e astratte, o quantomeno didattiche. Di con-
seguenza, essi non si preoccupano minimamente di individuare i veri problemi di una
materia che non appare soggetta a regole certe e costanti, e che nella realtà risulta sin-
golarmente condizionata dai tempi, dai luoghi, dal variare dei costumi, dalle differenti
prescrizioni delle normative locali, dagli «stili dei tribunali», e perfino dalle specifiche
circostanze dei casi particolari.
Sbagliano dunque i giuristi quando tentano di costruire un sistema di principi genera-
li in tema di processo penale facendo riferimento ai dettami del diritto romano e alle opi-
nioni degli interpreti. Sbagliano perché non considerano che nella pratica la sola forma
applicata è quella inquisitoria; sbagliano perché tale forma è «precisamente necessaria»
alle condizioni della società; sbagliano, infine, perché la materia è comunque legata a fat-
tori variabili e contingenti, e quindi non sopporta una disciplina fissa e universale.
I caratteri del procedimento seicentesco sono valutati da De Luca su basi razionali e
pragmatiche che lo inducono a relegare tra i falsi problemi la diatriba su accusa e inquisi-
zione. Questo atteggiamento accentuatamente critico, solitamente sconosciuto ai crimina-
listi coevi, è peraltro permeato da uno scetticismo di fondo assai distante dagli entusiasmi
e dal fervore innovativo che nel secolo successivo interesseranno gran parte della dottrina
illuminista.
Particolarmente indicativo di questo specifico aspetto del pensiero del cardinale è il
paragrafo finale dei primo dei capitoli del Dottor Volgare dedicati al processo penale. In
tale paragrafo De Luca esprime la disincantata convinzione che il corretto funzionamento
e il felice esito dei meccanismi della giustizia criminale siano dovuti essenzialmente
all’esperienza, alla moderazione e all’onestà intellettuale del singolo magistrato, e ricon-
ferma indirettamente di non ritenere possibile la costruzione dottrinale di un modello pro-
cessuale che risulti indipendente dalla realtà sociale e dalle esigenze della prassi:

In queste materie criminali particolarmente nelli giudici, e nelli magistrati (pre-
supposta l’integrità, e la retta intenzione), si deve desiderare più un buon giudizio,
e la prudenza raffinata dalla pratica, e dalla sperienza dei casi seguiti, che una gran
letteratura, bastando che questa vi sia a sufficienza.




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