Page 74 - Ettore Dezza, Lezioni di storia del processo penale, Pavia, Pavia University Press, 2013
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Ettore Dezza – Lezioni di storia del processo penale

ne, e a istanza del procuratore del Fisco, senza l’accusatore; e quando vi sia necessaria
l’accusa, ovvero la querela della parte offesa».
Nel rispetto dei dettami del diritto romano comune, la soluzione del problema vie-
ne solitamente riferita alla classica distinzione tra giudizi pubblici (così denominati
«per la qualità dei delitti»), nei quali spetta a ciascuno l’azione popolare, e giudizi pri-
vati, per i quali è necessaria l’iniziativa della parte lesa. In effetti, è precisamente sopra
gli esatti termini e le corrette conseguenze di tale distinzione che da secoli «si affatica-
no molto» gli autori. Da un lato si collocano gli scrittori (antichi e moderni) che «alla
scolastica camminano con la sola lettera delle leggi, non badando alla pratica»;
dall’altro si pongono «quei moderni collettori, o copiatori, i quali, credendo di parlare
per la pratica, camminano con le autorità di questi interpreti scolastici»; e tutti insieme
disputano su «quali siano i giudizi, o veramente i delitti pubblici, e quali siano i privati
per l’applicazione della suddetta distinzione».
De Luca non è certo tenero verso i colleghi: tutto questo affannarsi è perfettamente
inutile e non costituisce altro che «una delle solite semplicità dei puri prammatici», poi-
ché per «osservanza generale dei tribunali […] indifferentemente in tutti i delitti si cam-
mina per inquisizione», e «le parti dell’accusatore» sono sostenute da un «ministro pub-
blico deputato a quest’effetto dal principe».
Ma non basta: anche «sopra questa osservanza […] si scorge la solita varietà delle
opinioni, e […] la molta semplicità dei nostri». Alcuni infatti individuano le origini e la
fonte del sistema inquisitorio nel diritto canonico, ma non considerano che tale diritto non
può dirsi applicato in ogni luogo e in ogni materia. Altri preferiscono far riferimento a
una consuetudine generale, che però giudicano «esorbitante, e correttoria della ragion
comune», mentre essa è invece «impeditiva» all’applicazione dei principi accusatori ro-
manistici poiché risulta anteriore, secondo il cardinale, alla nascita del diritto comune.
Il fatto è che i giuristi appaiono agli occhi di De Luca totalmente privi di coscienza
storica, e per tale motivo troppo spesso si perdono in equivoci o inezie. Come tanti scola-
retti «imbevuti di […] favolette», e guidati da maestri ancora più ignoranti dei discepoli,
sono convinti che le leggi romane siano sempre esistite, vedono in Giustiniano «una spe-
cie d’Adamo», e non si rendono ben conto, in ordine alle complesse vicende del Corpus
Iuris e del diritto comune, della «gran differenza dei tempi, e dei costumi, e dei paesi».
Più in particolare, i cultori del diritto non si dimostrano in grado di cogliere quanto
profondamente abbia influito sulla forma del processo penale «la gran diversità dei co-
stumi dei tempi antichi, e moderni». Nella Roma repubblicana, secondo un principio in-
trodotto con molta prudenza e fine politica, ogni cittadino poteva esercitare liberamente il
diritto d’accusa, ed era per questo onorato e stimato anche quando non rappresentasse la
parte lesa. Nell’etica seicentesca, al contrario, e segnatamente «tra le persone nobili, ed
anche di mediocre civiltà», il voler esercitare il diritto d’accusa da parte di chi non sia
parte lesa è giudicato sul piano dei rapporti sociali «mancamento grande, ed una specie
d’infamia», e rappresenta un comportamento considerato comunque riprovevole «nella
stessa parte offesa».
Il costume e la mentalità dell’epoca assurgono dunque, nel pensiero di De Luca, a
chiave interpretativa del sistema: in un mondo nel quale si vive «coll’opinione che con-
venga vendicare l’ingiuria da se stesso con l’autorità privata» sono proprio le persone


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