Page 29 - Ettore Dezza, Lezioni di storia del processo penale, Pavia, Pavia University Press, 2013
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Capitolo 2 – La diffusione del modello inquisitorio
sto che l’accusatore presentasse il libello accusatorio e, onde evitare il pericolo della
calunnia, si impegnasse con l’inscriptio a subire la pena del taglione («inter cetera re-
quisita ad accusationem erat necesse ut accusator se inscriberet ad poenam talionis»).
Orbene – continua il criminalista – anche in tale ambito le cose sono ormai profonda-
mente cambiate, poiché i libelli accusatori non vengono più fatti («amplius non fiunt
libelli accusatorii») e per consuetudine (ma lo aveva già detto Alberto da Gandino) da
tempo non viene più irrogata la pena del taglione in caso di accusa calunniosa o temera-
ria («hodie cessat ex consuetudine haec poena talionis»). Quest’ultimo elemento è, per
Bossi, di grande importanza, poiché per il giurista milanese (secondo una linea rico-
struttiva che viene fatta risalire a Bartolo da Sassoferrato) la crisi e il tracollo
dell’accusatio sarebbero dovute proprio al venire meno della pena del taglione:
non c’è da meravigliarsi del fatto che l’accusa sia completamente abbandonata,
dato che per consuetudine è venuto meno l’elemento che sosteneva il principio se-
condo cui nessuno deve essere condannato senza un accusatore, e cioè la pena del
taglione («nec mirum quod penitus cesset accusatio, quia defecit ex consuetudine
id unde eveniebat, ut sine accusatore nemo damnaretur, scilicet poena lalionis»).
In ordine al rapporto tra querela di parte e accusatio, Bossi assume una posizione per-
sonale che in parte si allontana da quella destinata a consolidarsi nella prassi e nella
dottrina. Il giurista milanese ritiene infatti che i due istituti non debbano esser confusi o
equiparati, poiché la querela è funzionale al sistema inquisitorio, che si oppone netta-
mente a quello accusatorio. È infatti possibile osservare come sia prassi comune che
l’inquisizione abbia luogo in seguito alla presentazione di una querela («quotidie inqui-
sitio formatur super talibus querelis»), e come tale prassi sia comunemente accettata,
visto che l’attitudine della querela ad avviare l’inquisizione non viene mai messa in di-
scussione («nunquam disputatur super ineptitudinem querelae»). Tutto ciò non sarebbe
però ammissibile qualora si facesse rientrare – come molti autori propongono – la que-
rela nella categoria delle accusationes in quanto, per un principio generale, il rimedio
ordinario (l’accusatio) rende inesperibile quello straordinario (l’inquisitio), e dunque la
querela non potrebbe risultare complementare, come in affetti accade, rispetto
all’inquisizione. Il discorso vale a maggior ragione per le denunce e in particolare per le
denunce anonime, nei cui confronti il giurista milanese pronuncia una decisa condanna,
considerandole fonte di inammissibili abusi. La posizione assunta da Bossi, limpida e
ineccepibile sul piano tecnico, è peraltro destinata a mantenersi largamente minoritaria
a fronte di una prassi caratterizzata da una graduale fusione tra accusa, querela e de-
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nuncia supinamente accettata dalla gran parte della dottrina.
Per quanto riguarda infine l’inquisitio, il discorso di Bossi si incentra su quella che
è esplicitamente segnalata come una «vecchia questione», e cioè se sia possibile in ogni
10 Due esempi: Lancellotto Corradi nel Praetorium et curiale breviarium (edito a Venezia 1563) usa la
significativa espressione «accusatio querela vulgo nuncupata« («l’accusa, chiamata volgarmente querela»);
Giovanni Battista Cavallini nell’Actuarium practicae criminalis (pubblicato a Milano nel 1587) descrive la
formula della «querela, seu accusa, vel denuntiationis» («la querela ossia accusa o denuncia). È
interessante notare come la fusione tra accusatio vel querela sia attestata anche nelle Novae Constitutiones
del 1541 delle quali, come abbiamo visto, fu coautore lo stesso Bossi.
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