Page 148 - Ettore Dezza, Lezioni di storia del processo penale, Pavia, Pavia University Press, 2013
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Ettore Dezza – Lezioni di storia del processo penale

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agli anni Cinquanta dell’Ottocento in seguito all’introduzione, nel 1816, del codice
penale asburgico del 1803, interprete di una concezione radicalmente e lucidamente
inquisitoria del processo, incardinata sulla prova legale e caratterizzata dall’esplicito
divieto di ricorrere alla difesa tecnica, fondato sul presupposto che spetti al giudice
statale il compito tanto di perseguire la colpa quanto di garantire l’innocenza.
Anche l’Unità d’Italia non provoca, almeno in un primo tempo, grossi scossoni
nella figura e nella collocazione istituzionale e sociale dell’avvocato penalista. Peral-
tro, con l’Unità entra ormai in una fase per così dire calda il dibattito, in parte già av-
viato, relativo a taluni temi processualpenalistici che coinvolgono direttamente il ruo-
lo della difesa tecnica. I più rilevanti tra tali temi – destinati a dar vita ad aspre pole-
miche tra gli addetti ai lavori e a suscitare larga eco all’interno dell’opinione pubblica
– sono quelli relativi all’errore giudiziario e al ruolo della giuria popolare, all’esclusione
del patrocinio professionale dagli adempimenti propri della fase istruttoria, e all’effettiva
parità tra accusa e difesa nella fase dibattimentale.
In ordine alla giuria popolare, è noto come il Codice di Procedura Penale sardo-
piemontese del 1859 (il Codice Rattazzi, dal nome del Guardasigilli che ne promosse
la redazione) e il suo clone, il primo Codice di Procedura Penale dell’Italia unita del
1865, abbiano generalizzato il ricorso all’istituto, introdotto per la prima volta nel
Regno di Sardegna nel 1848 per i reati di stampa. Ora, la presenza della giuria popo-
lare ha una duplice conseguenza sulla figura del penalista. Da un lato lo induce infatti
– e si direbbe con un certo successo, a leggere le cronache giudiziarie dell’epoca – ad
accentuare gli aspetti per così dire retorici e dialettici della sua attività in aula.
Dall’altro lo coinvolge nella polemica relativa al cattivo funzionamento dell’istituto
in parola, secondo molti osservatori (e segnatamente secondo gran parte della magi-
stratura e della nascente Scuola Positiva) fonte di troppo facili e di troppo frequenti
assoluzioni e, di conseguenza, causa di numerosi e lamentati errori giudiziari. In tale
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dibattito, destinato a essere infine troncato dalla riforma delle corti d’assise del 1931,
gli esponenti della classe forense si schierano in larga maggioranza a favore di un
istituto – la giuria popolare – che non risulta certo immune da pecche e appare co-
munque bisognoso di riforme, ma che costituisce pur sempre la garanzia e il simbolo
di una concezione liberale e democratica dell’amministrazione della giustizia.
Circa il secondo oggetto di discussione, relativo all’esclusione della difesa tecni-
ca dalla fase istruttoria, è opportuno sottolineare in via preliminare come nei citati
codici di rito del 1859 e del 1865 il carattere inquisitorio della fase istruttoria risalen-
te al modello napoleonico risulti pienamente confermato. Il difensore è in effetti rigo-
rosamente escluso da tale fase. Non è ammesso a interrogatori, ricognizioni, confron-
ti, perizie, esami testimoniali. Non può avere colloqui con l’imputato detenuto. Non
ha diritto di vedere le carte. Può soltanto redigere o contribuire a redigere taluni atti


6 E precisamente fino all’entrata in vigore del Regolamento di Procedura Penale per l’Impero d’Austria del
29 luglio 1853, che ripristina il diritto dell’imputato ad avvalersi dell’assistenza di un avvocato.
7 Il Regio Decreto 23 marzo 1931, n. 249, sostituisce alla giuria popolare di modello francese (e di
ascendenza inglese), introdotta nel 1859/1865 e modificata nel 1913, un unico collegio giudicante formato
da due giudici togati e cinque «assessori» laici, ancora oggi operante con poche varianti rispetto alla
legislazione degli anni Trenta.

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