Page 149 - Ettore Dezza, Lezioni di storia del processo penale, Pavia, Pavia University Press, 2013
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Appendice – La difesa tecnica nella storia del processo penale
per i quali sono richieste specifiche competenze tecniche. Su questo punto le prese di
posizione degli esponenti dell’avvocatura penale risultano particolarmente critiche, in
quanto escludere del tutto la difesa tecnica dalla fase istruttoria significa pregiudicare
l’effettività del diritto di difesa e in buona sostanza giungere alla fase dibattimentale
quando ormai i giochi sono in gran parte fatti. In argomento, peraltro, i risultati otte-
nuti dalla polemica sollevata dai membri del ceto forense e da taluni prestigiosi mae-
stri del pensiero penalistico di matrice liberale (a partire da Francesco Carrara) non
paiono particolarmente significativi, e il problema sarà affrontato in modo concreto
solo un secolo più tardi.
Discussioni altrettanto dure si registrano anche in ordine al problema dell’effettiva
parità tra accusa e difesa nella fase dibattimentale. In tale ambito il ceto forense lamenta
da un lato l’imperfetta realizzazione a livello normativo dei principi accusatori, e
dall’altro la persistenza, in larghissimi strati della magistratura, di pratiche e di abitudini
ancora legate a vecchi schemi esclusivamente inquisitori. Ne consegue, a parere di non
pochi esponenti del mondo professionale (anche in questo caso sostenuti da una parte
consistente della dottrina penalistica), una attuazione esclusivamente formale del diritto
di difesa, che riesce a dispiegarsi con efficacia solo nei casi di maggiore risonanza, quan-
do l’operato della magistratura viene sottoposto a una forma di vero e proprio controllo a
opera della stampa e dell’opinione pubblica.
Un ultimo dato cui conviene almeno accennare in ordine alle vicende (e alle po-
lemiche) che coinvolgono l’avvocatura penale in età postunitaria riguarda una con-
trapposizione destinata a divenire una spiacevole costante nella storia giudiziaria
dell’Italia moderna e contemporanea. Ci riferiamo ai cattivi se non a volte pessimi
rapporti che vengono ben presto a instaurarsi tra gli avvocati (e segnatamente gli av-
vocati penalisti) da una parte e i magistrati e i pubblici ministeri dall’altra. Si tratta di
rapporti che spesso travalicano la normale fisiologia di una coabitazione di soggetti
per definizione antitetici, e che si fanno particolarmente agitati non solo per i contra-
sti e le discussioni relativi ai temi testé accennati, ma anche a causa dei sempre più
numerosi conflitti di competenza tra gli organi disciplinari degli ordini e la magistratura.
A innescare tali conflitti contribuisce largamente – giova rammentarlo – l’innovativa
legge 8 giugno 1874, n. 1938, sull’esercizio delle professioni di avvocato e procuratore
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che, introducendo una regolamentazione più ‘liberale’ negli ordini professionali, investe
questi ultimi di specifiche competenze nelle delicate materie relative al controllo
sull’esercizio della professione e all’inflizione di provvedimenti disciplinari, tradizional-
mente affidate a organismi giudiziari, e segnatamente alle corti di cassazione.
8 Una delle testimonianze di maggiore interesse circa i fondamenti per così dire ideologici della legge del
1874 (peraltro aspramente criticata da Francesco Carrara) è costituita dai due discorsi pronunciati da
Giuseppe Zanardelli – che era stato tra i principali artefici della legge in questione – alla prima e alla
seconda adunanza annuale del Collegio degli Avvocati di Brescia, costituito in applicazione della nuova
normativa.
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