Page 127 - Ettore Dezza, Lezioni di storia del processo penale, Pavia, Pavia University Press, 2013
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Capitolo 11 – Costruzioni ideali e proposte concrete alle soglie della codificazione

delitti, ed allo spavento dei malvagi, ha fatto credere ai legislatori più savi che non
si poteva negare al cittadino il diritto d’accusarne un altro.
Tale fu la scelta operata dai popoli dell’antichità, presso i quali la libertà di accusa assi-
curava la pubblica e la privata tranquillità, mentre la severa punizione dell’accusa ca-
lunniosa tutelava la sicurezza dell’innocente. In un sistema di questo tipo, nel quale
l’accusa, collegata ai diritti di cittadinanza, sia liberamente concessa a chiunque e sia
altresì palese e nota all’accusato, i due estremi del problema penale, la «tranquillità
pubblica» e la «sicurezza privata», risultano strettamente compenetrati e trovano dun-
que una soddisfacente soluzione unitaria in quanto si aiutano e si garantiscono a vicenda.
Filangieri, con dovizia di note dottrinali, si sofferma in particolare a illustrare il
metodo accusatorio romano praticato «durante la libertà della repubblica e nei bei gior-
ni dell’impero», insistendo specialmente sui principi posti a difesa dell’accusato e sulla
disciplina dell’accusa calunniosa. Riunendo una serie di testi frammentari, descrive poi
in qual modo tale metodo fosse applicato anche presso i Greci e («chi lo crederebbe!») i
popoli barbari, che regolarono l’accusa «molto meglio che al presente».
Nel complesso, è possibile osservare come Filangieri in questa parte dell’opera
tenda innanzitutto a ricostruire un unitario modello storico di riferimento, largamente
ispirato a quello romano-classico, e rifiuti nel contempo l’impostazione relativistica
suggerita da Montesquieu, trascurando di conseguenza la questione delle degenerazioni
e dei possibili inconvenienti dello stesso metodo romano.
Il passo successivo consiste nel paragonare i vantaggi dell’individuato modello
classico con gli aspetti deteriori dell’«assurdo e feroce» processo penale moderno di
natura inquisitoria, ideato dal dispotismo, diffuso dalla «superstizione», adattato e so-
stenuto dall’indolenza dei governanti e dall’ignoranza.
In tale vigente sistema i reati sono perseguiti da una persona pubblica; il giudice è
anche l’inquisitore, e si serve di subalterni corruttibili; il cittadino «non può accusare
che le proprie offese e quelle dei suoi stretti parenti», e in molti casi non può chiedere
altro che il risarcimento dei danni. Il tutto si svolge nel massimo segreto. Circa
quest’ultimo punto, viene esaltato il principio della pubblicità del procedimento in uso
«una volta», mentre è oggetto di severe critiche il «misterioso ed arbitrario segreto» che
avvolge i momenti più importanti della procedura moderna. In conseguenza del ricorso
sistematico alla segretezza, l’accusato perde infatti la libertà e l’onore senza saperne il
motivo e per un tempo imprecisato, durante il quale si trova in «uno stato di violenza e
di tormento» intollerabile in caso di innocenza.
Riassumendo, le «opposizioni» tra il metodo antico e il moderno in ordine
all’accusa sono principalmente due:

1) Io veggo tra gli antichi l’accusa permessa a tutti i cittadini. 2) Io la veggo pale-
se all’accusato, fin dal primo momento che s’instituiva. Trovo abolito l’uno e
l’altro tra i moderni.
Da questa osservazione di sintesi Filangieri trae lo spunto per censurare il passo del De
l’Esprit des lois nel quale Montesquieu individua nelle diversità delle forme di governo
la giustificazione dei limiti posti, in determinate situazioni, alla libertà di accusa.


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