Page 114 - Ettore Dezza, Lezioni di storia del processo penale, Pavia, Pavia University Press, 2013
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Ettore Dezza – Lezioni di storia del processo penale

le occasioni di discordia e di conflitto tra i singoli cittadini, trasformando il processo in
una sorta di cassa di risonanza degli odi privati; porta inoltre serie minacce alla vita e ai
beni di cittadini pur integerrimi perché, come insegna (ancora una volta) la storia di
Roma imperiale, produce calunniatori spinti ad accusare dalle ricompense. Se si consi-
dera invece la frequente latitanza degli accusatori contrapposta alla continua vigilanza
assicurata da magistrati tenuti ad agire ex officio, non si può non concludere che
l’inquisizione tuteli molto più efficacemente uno dei fondamentali interessi pubblici, e
cioè quello di vedere limitate al massimo l’impunità e la conseguente «audacia» dei
delinquenti.
In ordine poi al problema dell’arbitrio giudiziale, Renazzi si limita a sottolineare
che nel vigente processo inquisitorio basato sul sistema della prova legale il giudice – al
contrario di quanto solitamente accade nel sistema accusatorio – deve procedere solo
sulla base di indizi certi, ma non può pronunciare sulla base dei soli indizi la condanna,
per la quale si rendono necessarie la prova certa del fatto o la confessione del reo.
L’adesione di Renazzi al modello inquisitorio, appoggiata principalmente a moti-
vazioni di utilità e di opportunità, non appare peraltro incondizionata. Rimane infatti
aperto il grave problema degli elementi estranei alla regolare procedura inquisitoria che
nel corso dei secoli sono stati recepiti senza una precisa indicazione di diritto («praeter
ius») e che vengono osservati in forza di consuetudini forensi. Tali elementi, in quanto
alieni dall’equità e dall’umanità («ab aequitate et ab humanitate»), devono essere ri-
mossi dai governanti con un deciso intervento che, pur conservando l’impostazione
processuale considerata più utile e più adatta ai tempi, riformi l’amministrazione della
giustizia criminale al fine di poter garantire, conciliandole, sia la sicurezza privata
(«privata securitas») che il bene comune («communis salus»).
Attenendosi a canoni di estrema prudenza, Renazzi non indica in modo esplicito
quali siano gli aspetti della giustizia penale del suo tempo che appaiono alieni
dall’equità e dall’umanità e che devono essere oggetto di riforma. È comunque lecito
ritenere che il riferimento sottintenda alcuni almeno degli elementi oggetto con maggio-
re frequenza delle critiche del pensiero illuminista, a cominciare dalla tortura giudiziaria,
dalla condizione di segregazione dell’imputato, dalla totale segretezza dell’inquisizione,
dal ricorso alla pena straordinaria e, last not least, dalle limitazioni all’esercizio del diritto
di difesa e segnatamente alla possibilità di ricorrere alla difesa tecnica.
In sede conclusiva, la Diatriba di Renazzi ribadisce comunque – questa volta con
estrema chiarezza – che il problema del rispetto dell’uguaglianza e delle libertà civili
(«civilis aequalitas et libertas») trova soluzione, più che nella scelta dell’uno o dell’altro
modello processuale astratto: a) in primo luogo nell’esatta regolamentazione e nel conse-
guente rispetto delle forme processuali (che dovranno essere tanto più accurate quanto
più grave sarà la pena che minaccia i destini e la vita stessa dell’imputato); b) in secondo
luogo nell’applicazione dei principi di equità e di umanità; c) in terzo luogo nella celerità
del giudizio (onde evitare inutili tormenti specie all’innocente e per conseguire i benefici
effetti che scaturiscono dal vedere la pena seguire con immediatezza al reato).






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