Page 116 - Ettore Dezza, Lezioni di storia del processo penale, Pavia, Pavia University Press, 2013
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Ettore Dezza – Lezioni di storia del processo penale
quisizionali ai quali il reo deve rispondere, e in difetto di piena prova contro il reo
che nega il delitto, procede con mezzi straordinarii per estorquere dalla bocca del
medesimo quella parte di prova che lui manca per condannarlo, e finalmente si
procede alla sentenza.
Su queste premesse di carattere generale, nelle quali non manca peraltro un giudizio
severo circa il ricorso a mezzi probatori «straordinarii», si innesta una serrata critica a
non pochi aspetti del vigente metodo procedurale.
De Simoni riconosce al processo inquisitorio una maggiore efficacia, giudicandolo
«diretto veramente di sua instituzione ad iscoprire la verità del fatto», ma non trae da
tale osservazione motivi sufficienti per considerarlo preferibile (come farà invece Re-
nazzi nella Diatriba del 1777). Al contrario, De Simoni ritiene che gli aspetti iniqui e
persecutori siano legati alla natura stessa del modello inquisitorio, e non possano quindi
essere completamente eliminati neanche in presenza di una volontà politica di segno
riformatore. L’inquisizione, infatti, «può non difficilmente degenerare in oppressione
d’un innocente», e ciò può verificarsi «per malizia del giudice», «per ignoranza», «per
sottil passione di giusta severità» e «finalmente per debolezza ancor del reo».
Gli effetti negativi di tali momenti degenerativi sono accentuati da quello che, per
De Simoni, è forse il difetto capitale del metodo inquisitorio, e cioè l’unificazione delle
funzioni di accusatore e di giudice. Concentrare nella medesima persona i ruoli di accu-
satore-inquisitore e di giudice comporta infatti un gravissimo pericolo per la «retta ed
incorrotta giustizia nell’orditura del processo». Niente di più facile in tale circostanza
che nel «freddo esaminatore e indagatore dell’esistenza e dell’autore del delitto» non-
ché della «pura e pretta verità» prevalga l’animo dell’accusatore, per superbia o per
amor proprio, per ambizione o per passione, per pregiudizio o più semplicemente per
non considerare inutile il lavoro svolto. E niente di più facile, di conseguenza, che
l’imputato – «un infelice incatenato, dato in preda allo squallore, alla fame, oppresso
dal male» – si decida a confessare anche se innocente, «per non vivere più oltre peggio
che condannato».
Un altro tema controverso sul quale De Simoni richiama l’attenzione del lettore ri-
guarda il risarcimento dei danni subiti dall’imputato riconosciuto innocente. «Secondo
la sana e metodica pratica giurisprudenza» dei Romani, era possibile ottenerlo sia nei
confronti dell’accusatore privato, sia nei confronti dell’accusatore pubblico «quando di
calunnia fosse stata convinta la loro accusa, e non l’avessero con legittime prove soste-
nuta». Ma «nell’adottato processo inquisitorio» a chi chiedere il risarcimento? Al Fi-
sco? Si tratta di un «immaginario fantasma» che, fino a quando vi sia possibilità di
condanna, è attivissimo nello sfruttare i suoi molteplici poteri per tormentare l’imputato
e per impadronirsi dei suoi beni, ma che, in caso di assoluzione, «sparisce come
un’ombra o uno spettro, né più esiste per non dover essere riconvenuto dall’inquisito
pe’ suoi danni».
Il giurista valtellinese si scaglia poi con una veemenza ancora maggiore, che sfiora
l’invettiva, contro quei criminalisti (e cita per tutti Egidio Bossi e Benedict Carpzov)
che (riprendendo in realtà – giova precisarlo – un vecchio schema canonistico afferma-
tosi tra il XII e il XIII secolo) hanno creduto di giustificare il processo inquisitorio at-
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