Page 146 - Fabio Gasti (a cura di), Seneca e la letteratura greca e latina. Per i settant’anni di Giancarlo Mazzoli, Pavia, Pavia University Press, 2013
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134 Giuseppe Gilberto Biondi

in qualche modo, la posizione politica di S. a quella del nipote Lucano, il cui Bellum
civile viene giustamente interpretato come una anti-Eneide.
A capire meglio il senso della allusione del Coro senecano alle parole di Titiro
virgiliano ci vengono in aiuto quelle due vere e proprie citazioni di S. filosofo allo stesso
passo di V. Sia in ben. 4,6,4 sia in epist. 73,10 il brano bucolico viene citato da S.
all’interno del discorso sui benefici e, in entrambe le opere filosofiche, le parole di Titiro
vengono indicate come exemplum di gratitudine che si deve avere nei confronti dei
benefici avuti da altri uomini, come appunto un beneficio avuto dai politici e perfino dal
princeps: tuttavia, ed è questo il punto, questi benefici ottenuti come Titiro dal potere
politico, sono ‘altro’, non solo sul piano quantitativo (come sottolinea il passo del De
beneficiis) ma anche qualitativo (come marca l’epistola a Lucilio) rispetto ai benefici che
ci dona Dio: solo questi, infatti, sono gli unici veri e propri beni indivisibili (bona) mentre
gli altri (anche quelli cantati da Titiro, vale a dire perfino i doni del princeps) sono sì
importanti, ma pur sempre semplici agi o vantaggi (commoda).
Qui si gioca la partita, anche esegetica, non, si badi, di S. tragico ma di S. filosofo:
l’otium, e perfino la pace, perfino quella universale che è il fine ultimo della politica e
del governo (De clementia) è uno, se vogliamo il più grande dei benefici che l’uomo
può fare all’uomo ma pur sempre un commodum ma non un bonum, che solo Dio può
donare. Di qui la citazione virgiliana, che suona, deve suonare come paradosso: perfino
il dono più grande che può dare il princeps è un dono relativo ed effimero. Questo, e ci
riflettano bene i colleghi che insistono su un S. tragico ‘altro’ dal S. prosatore, lo
deduciamo non dalle tragedie del poeta ma dal pensiero del filosofo, in particolare del
pensatore politico, e nel momento massimo della sua sicurezza esistenziale, dal
pensiero politico espresso esattamente nel De clementia: che contiene un forte senso
tragico della politica e della storia.
E non a caso, è opera densissima di citazioni tragiche, molte vicinissime proprio al
nostro Thyestes. Mentre rimando ad altra sede un lavoro specifico sulla componente
tragica nel pensiero politico del De clementia, qui sarà opportuno osservare che il senso
tragico nel pensiero politico di S. consiste nel fatto che per S. la gestione della res publica
non può che essere monarchica (cosa che spiace al pensiero politicamente corretto di
molti critici moderni, confesso anche a me: ma S. appartiene a quella corrente di pensiero
che vedeva nel principato non solo un processo irreversibile ma anche un male comunque
minore rispetto alla certezza di guerre civili nel caso di un ritorno alla ‘prima’ repubblica)
sicché la fortuna della società e della storia dipende dalla ‘bontà’ o meno del princeps.
Tutto il De clementia, come ogni altra pagina di S. politico, si basa su questo instabile, e
per questo tragico, principio.
Con due corollari, se vogliamo altrettanto inquietanti: il primo è che, anche un governo
malvagio, crudele e perfino persecutorio nulla può contro la virtus che addirittura può
trovare sostegno nella stessa morte (lo abbiamo visto nei passi delle Troades, ma lo
possiamo confrontare con infiniti passi del De beneficiis, del De ira, del De providentia
etc.); e così, come la morte e perfino la persecuzione non devono considerarsi un malum,
allo stesso modo, ed è questo il secondo corollario, non deve considerarsi un bonum (ma
solo un commodum) nemmeno un buon governo, e nemmeno un grande dono del




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