Page 119 - Fabio Gasti (a cura di), Seneca e la letteratura greca e latina. Per i settant’anni di Giancarlo Mazzoli, Pavia, Pavia University Press, 2013
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Il significato politico dell’Hercules Furens e dell’Hercules Oetaeus di Seneca 107

Ercole, nei suoi discorsi ai vv. 955-973 e 976-986, decide di incitare contro Giove i
Titani, che egli contribuì a sconfiggere. Richiamandosi e nel contempo contrapponendosi
a Orazio, Seneca raffigura con grande trasparenza l’hybris di Ercole, in quanto gli fa in-
vocare ad uno ad uno «die Paradeigmata der Hybris aus Horaz c. 3,4 zu seiner Hilfe»:
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Crono, i Titani, i Giganti, Tizio, Mimante. Orazio parla della vis consili expers, che
mole ruit sua (carm. 3,4,65): anche in Seneca Ercole incarna la vis consili expers, che,
come dice Giunone nel prologo, rovina su se stessa (v. 85). Orazio sviluppa un contesto
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– positivo – chiaramente riferito ad Augusto: è dunque facile pensare che Seneca ar-
gomenti in un contesto – negativo – da riferirsi a Nerone.
Per due volte Seneca rappresenta uomini che, in seguito a una grave colpa,
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vogliono porre fine alla propria vita con il suicidio. Nelle Phoenissae Edipo reagisce
con il rifiuto a tutte le obiezioni e solo l’amore di Antigone, la pietas natae, lo mantiene
in vita. Nell’Hercules Furens Ercole è spinto dalla pietas erga parentem a ubbidire alle
esortazioni di Anfitrione. Seneca conferisce alla decisione di Ercole di vivere, vivamus
(v. 1317), un significato stoico, per cui la vita non si può gettare via con leggerezza. Il
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sapiens abbandona la vita soltanto se necessitates ultimae inciderunt. Forse Seneca
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parla per esperienza personale: aliquando enim et vivere fortiter facere est. Che
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significato viene ad assumere «l’exemplum stoico» del vivamus, se si identifica la
figura di Ercole con Nerone? Certamente Nerone non aveva mai pensato al suicidio.
Probabilmente, però, Seneca potrebbe dire, riferendosi a lui, che nonostante si sia
commesso un orribile misfatto si può dare una svolta alla propria vita. Proprio questo
sembra essere il messaggio alla base del De clementia.
Se si ammette che la tragedia è comunque collegata a Nerone nel personaggio di
Ercole, non vi sono dubbi sull’orientamento dell’opera. L’insegnamento è il seguente:
anche Ercole ha domato se stesso; questo per un ‘grande’ era motivo non di vergogna,
ma di onore. Allo stesso modo l’attuale princeps può ancora trovare la strada giusta:
non è, per così dire, mai troppo tardi.
Forse anche la figura di Giunone può essere vista nel contesto politico. In
un’analisi superficiale le si potrebbe attribuire la responsabilità dell’azione folle di Er-
cole. Secondo questa interpretazione, che tanto piace ad esperti filologi moderni, Sene-
ca avrebbe conservato nei confronti di Nerone un atteggiamento più che mai tranquillo
e disinvolto. E comunque, se si fossero fatti avanti degli interpreti scomodi, avrebbe
sempre potuto ‘nascondersi’ dietro a Giunone.
Noi sappiamo che Seneca non ha avuto successo davanti al suo terribile allievo,
ma nonostante ciò era necessario per lui difendere di fronte all’opinione pubblica il
proprio pensiero.


52 Mette (1964, p. 176).
53 Cfr. Lefèvre (1993, pp. 167-168).
54 Cfr. Lefèvre (1969, 1972, p. 359); Zwierlein (1984, p. 29).
55 Epist. 17,9. Cfr. Leeman (1971, p. 330).
56 Saepe impetum cepi abrumpendae vitae: patris me indulgentissimi senectus retinuit. cogitavi enim non
quam fortiter ego mori possem, sed quam ille fortiter desiderare non posset. itaque imperavi mihi ut viverem;
aliquando enim et vivere fortiter facere est (epist. 78,2). Cfr. anche Billerbeck (1999, p. 601).
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Zwierlein (1984, p. 29).

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