Page 100 - Fabio Gasti (a cura di), Seneca e la letteratura greca e latina. Per i settant’anni di Giancarlo Mazzoli, Pavia, Pavia University Press, 2013
P. 100
88 Gianna Petrone
20
alla ‘eutanasia’ così in voga al tempo ‘catoniano’ di Seneca ma risulta innegabilmente
connessa al canto del primo coro, che conclamava la morte liberatrice che slegava dalle
miserie. Si distingue chiaramente quest’ultima idea nel v. 376, laddove la sopravvivenza
dell’anima viene presentata come la distruzione dei ‘vantaggi’ della morte: se ne sono
21
accorti i commentatori, senza trarne forse tutte le dovute conseguenze.
Chi può parlare così? A chi fa paura l’ipotesi dell’immortalità, tanto da pensarla
come uno svantaggio? Restat miseris…; a esprimersi in questo modo non può essere se
non chi, gravato dalla sofferenza, percepisce l’eternità come un rimanere nella pena,
mentre invece il non essere più come la cessazione del dolore. Ci troviamo di fronte a
un ragionamento filosofico o a un lamento poetico, coerente con il felix Priamus cele-
brato dal primo coro?
Con riuscita efficacia e provocatorio anticonformismo, il coro rovescia il discorso
intorno al problema, avviando una sorta di disputatio la cui inventio appare aver capo-
volto i termini della questione: rispetto all’asserto malum esse mors, premessa da cui
partiva, per una confutazione, il Cicerone delle Tusculanae, qui sembra valere l’assunto
contrario. La questione è infatti avvicinata in una direzione che sostituisce alla naturale
paura della morte, input della discussione filosofica, un implicito desiderio della mor-
22
te. Questa linea di condotta del pensiero stupirebbe come un assurdo logico, se non
fosse che, a ben radicarla, inserendola nella tragedia del pianto con poetica giustifica-
zione, provvede l’identità della persona drammatica. Il presupposto, secondo cui la
morte assoluta sia un bene, scopre la personalità del parlante. Che ha già preso posizio-
ne con un parere opposto al comune sentire, formulando l’azzardo di un paradosso: se
le ombre dei morti continuano a vivere, allora la morte non è più ‘utile’. Questa voce,
singolarmente predisposta a un pregiudizio inconsueto, rimanda a quell’ossimorico ot-
timismo della disperazione, che è una cifra riconoscibile delle donne troiane quali per-
sonaggio drammatico. Aver oltrepassato la soglia delle sventure le induce, oltre che a
celebrare la beatitudine dello scomparso Priamo, a considerare favorevolmente per loro
stesse, e per le prossime vittime, la certificata probabilità del nulla.
L’identità femminile e troiana del coro, seppure suggerita più che abbozzata, viene
dunque in gioco nel momento e nel modo dell’insorgere del canto, sotto il duplice
aspetto del genere, di cui è icona la sposa nel suo ultimo distacco dal marito, e del
racconto scenico, rappresentato dalle devastazioni del dopoguerra troiano, necessario e
naturale presupposto di personaggi il cui sguardo nei confronti della morte è così
preventivamente connotato. Filtra, nello svolgimento di un tema generalissimo e per
eccellenza filosofico, l’origine da cui promana la voce: è la verità del coro, intrisa di una
sua parzialità.
Nella sequenza dei vari episodi della tragedia torna, con cadenzata regolarità, il motivo
della chance offerta per assurdo dall’estremità del dolore, tale che non si debba temere
niente di peggio rispetto a ciò che si è già provato; istanza che nel coro ritaglia la scelta,
del nulla come ultimo baluardo. Questo tema si legge, per esempio, nella smagata
20 Ampia disamina sull’argomento in Hill (2004).
21 Cfr. Fantham (1982, ad l.), Boyle (1994, ad l.).
22
Scrive Traina (2003, p. 144): «il timore del nulla si è rovesciato nel desiderio del nulla».