Page 103 - Fabio Gasti (a cura di), Seneca e la letteratura greca e latina. Per i settant’anni di Giancarlo Mazzoli, Pavia, Pavia University Press, 2013
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Troia senza futuro 91
innocente, è infatti imparagonabile con la morte in battaglia di Ettore e rappresenta un
‘di più’ nella catena del lutto. Così la nova… causa del pianto, che nel primo coro co-
stringe le Troiane, pur abituate, a rinnovare e ad aumentare le lacrime, non tarda a pro-
filarsi con l’inevitabile sacrificio di Polissena. Il divario tra il morto Achille, che de-
miurgicamente detta la sua legge alla realtà, e il morto Ettore, sogno inconsistente e
proiezione di un affetto coniugale, non potrebbe essere più amplificato nelle Troades,
contrassegnandone la linea compositiva e scandendone l’azione. Nel tempo della trage-
dia, questa dicotomia è fortemente sottolineata: Andromaca si chiede se il ritorno dagli
inferi è consentito solo ai Danai (solisne retro pervium est Danais iter?, v. 433), esorta
vanamente Ettore a infrangere le barriere dell’oltretomba per sconfiggere Ulisse, cui
anche da ombra è enormemente superiore (vel umbra satis es, v.683), ma il suo è un
dialogo a solo, autoreferenziale, tanto che ella stessa teme di essere l’unica a vedere il
marito, chiedendo conferma della sua apparizione agli altri (v. 681 ss.) e, nonostante la
sua infinita devozione, rimprovera Ettore di inettitudine, rinfacciandogli il ritorno di
Achille (…lentus et segnis iaces? / redit Achilles, v. 805 s.).
D’altronde in un certo senso anche Andromaca aveva preso partito, quando nel
monologo interiore della scissione dialettica tra rivelare il nascondiglio del figlio o
permettere la distruzione del sepolcro del padre, aveva deciso di salvare il vivo a spese
del morto, con l’argomento che «lui può avvertire la sua pena, mentre quello il destino
lo ha messo al sicuro», … fata iam in tuto locant (v. 656): si tratta di quel ‘non-luogo’
su cui terminava il secondo coro.
La sussistenza di Achille anche da morto, di contro, è data come una certezza e la
sua ritorsione vendicativa verso i Troiani ha il tratto di una sicura evidenza. Ne è con-
sapevole, da vittima, Ecuba: «ancora vive Achille per la rovina dei Frigi, ancora rifà la
guerra?» (955 s.). Ecco un punto nevralgico del senso e una linea d’arrivo dell’azione.
L’inizio, con il prologo di Ecuba, personaggio paradigma della precarietà della for-
tuna, non lasciava presagire questa possibilità di reduplicazione, offrendo un quadro
che sembrava più appropriato per un finale, in quanto tutto il peggio si era già consu-
mato e dalla distruzione di Troia si era già distillata una morale, la cui enunciazione
manifestava un dato acquisito in partenza. Eppure l’impressione veniva poi smentita,
perché invece il fondo dei mali non era stato ancora toccato. Infatti il compimento della
rovina, contro ogni evidenza, attendeva di realizzarsi e l’‘assestamento’ andava ancora
trovato (nondum ruentis Ilii fatum stetit, v. 428); per questa definizione dei fati occor-
reva infatti l’ulteriore sciagura del doppio nefas segnato dalla morte degli innocenti
Astianatte e Polissena. Come sentenzia con estrema chiarezza Ecuba, solo allora si con-
clude davvero la guerra: concidit virgo ac puer; / bellum peractum est (v. 1167 s.).
Un punto di partenza già estremo, a prima vista statico, trova tuttavia uno sviluppo
che sposta ulteriormente l’orizzonte tragico più in là: è il tipico ordine sintagmatico che
caratterizza le tragedie senecane.
L’ombra di Achille è il motore di questa concatenazione di eventi, che assomiglia
precipuamente alla sintassi usuale alle tragedie ‘dinastiche’ di Seneca, dove l’antenato,
furia della stirpe, interviene già dal prologo a scatenare la sua vendetta, imponendo ai
discendenti la coazione a ripetere del maius malum. Per quanto la necessità di rispettare la
cornice mitica esercitasse un limite insuperabile, Seneca ha adattato alla sua scansione