Page 99 - Fabio Gasti (a cura di), Seneca e la letteratura greca e latina. Per i settant’anni di Giancarlo Mazzoli, Pavia, Pavia University Press, 2013
P. 99







Troia senza futuro 87

mente retrocede verso il primo coro, riprendendone il filo conduttore, si staglia un pro-
filo di personaggio actor: si tratta evidentemente delle Troiane, donne che hanno perso
gli uomini, quelle stesse che prima si erano dette stanche di piangere i morti. A loro si
adatta infatti, con ricercata armonia, la descrizione del gesto della moglie che si prepara
a seppellire il marito, quasi un raccordo, a ritroso, con la funebre ritualità del pianto su
Ettore e Priamo. Le prigioniere, mesto comitato che ha accompagnato e assecondato
Ecuba (turba captivae mea, v. 63), continuano, si potrebbe dire, da dove le avevamo
18
lasciate. Da loro si leverà il problema, adeguato alle loro emozioni, riguardo
l’immortalità o meno dell’anima, come, in certo senso, suscitato dalla loro esperienza.
Il progressivo tradursi della sequenza nell’astrazione intellettuale, e in una indistinzione
resa d’obbligo dall’universalità del tema, non cancella la coerenza drammatica del per-
sonaggio corale: le Troades, che prima si battevano il petto, hanno adesso elaborato il
pianto, sostituendogli la riflessione.
Ma ancora di più, il testo offre un segnale preciso d’individuazione nel modo in cui
è articolata la stessa domanda cruciale, quando il coro si prospetta la doppia ipotesi sul-
la sorte finale dell’anima: «non è utile consegnare l’anima alla morte ma resta agli infe-
lici di vivere più a lungo o piuttosto moriamo del tutto e non rimane nessuna parte di
noi?» (non prodest animam tradere funeri, / sed restat miseris vivere longius? / an toti
morimur nullaque pars manet / nostri…?, v. 376 ss.). L’affermazione nichilistica, verso
la quale il coro indirizza il suo convincimento, racchiude, come si sa, nella nettezza a
bruciapelo dell’espressione usata (an toti morimur…), un’eco antifrastica dell’oraziano
non omnis moriar, con un diniego ostentato e una correzione dell’eufemismo del poeta
augusteo. L’allusione è significativa di un’antitesi, che potrebbe coinvolgere l’ego del
poeta con la durata temporale della sua opera, e usa peraltro il genere maschile, con un
salto di allontanamento dall’identità femminile delle Troiane. Se questo può far sobbal-
zare il lettore moderno, non crea però difficoltà insormontabili in ordine alla persona
drammatica: a parte il fatto che anche nel teatro greco i cori potevano avere in proposi-
to qualche disinvoltura nel virare verso un noi al maschile, anche quando fossero donne
19
a comporlo, sarebbe incongruo aspettarci qui un totae al femminile, visto che si sta
parlando della morte che tocca a tutti. Questi elementi di rilievo esegetico non devono
distrarci tuttavia dal cogliere l’evidente inusualità della formula con cui è invece pre-
sentata la prima parte dell’interrogazione, portatrice di una forte tensione, questa volta
interna al testo e ai suoi personaggi drammatici.
Dire infatti che la morte «non giova» (non prodest), se agli infelici rimane la soprav-
vivenza ultraterrena, valuta la possibilità che l’anima sia immortale alla stregua di una
condanna infinita: questa convinzione possiamo certamente attribuirla al filosofo stoico e


18 Mi sembrava di poter avanzare questa osservazione in Petrone (2006).
19 Cfr. in merito Zwierlein (1966, p. 74), a proposito di un’altra identificazione problematica quale quella del
secondo coro della Phaedra. Devo ad Alfredo Casamento l’indicazione di un passo del grammatico Polluce
(4,111) che, da vero esperto in materia, parla assai chiaro, quando afferma che anche Euripide nel coro della
Danae fa parlare le donne che lo compongono «come se parlassero uomini». La spiegazione di Polluce, che
vede in questo come in molti altri casi, un intervento del poeta attraverso il mezzo offerto dal coro, è assai
interessante, in quanto mostra come si possano ‘retrodatare’ a Euripide alcuni dei più discussi problemi posti
dai cori senecani.


   94   95   96   97   98   99   100   101   102   103   104